Viaggiamo per uno scatto o per scoprire?
Oggi, “partire” non significa più “esplorare”, ma “riprodurre”. Andiamo in cerca di luoghi che abbiamo già visto centinaia di volte sui social e il nostro viaggio comincia e finisce con la ricerca dell’inquadratura perfetta. La posa giusta, la luce virale, lo scatto che dimostri che anche noi “ci siamo stati”. Ma nel momento in cui proviamo a replicare un’immagine già vista milioni di volte, la meraviglia svanisce. L’esperienza si appiattisce, l’autenticità si perde. Non ci chiediamo più cosa ci racconti un luogo, ma come potrà raccontarci online. Così il viaggio diventa una performance, un copione visivo, un contenuto da validare con “like” e condivisioni.
Un immaginario guidato dagli algoritmi
Instagram e TikTok non si limitano a mostrare il mondo: lo selezionano, lo riscrivono, lo rendono desiderabile o invisibile. I luoghi che “funzionano” nei feed per luce, colore, simmetria e tanto altro, diventano automaticamente i più ricercati; e più vengono condivisi, più diventano popolari. Così nasce un circuito chiuso in cui la mappa del desiderio turistico si restringe, anziché allargarsi. Non è più disegnata da guide o viaggiatori curiosi, ma da ciò che gli algoritmi spingono in alto, portando il viaggio a standardizzarsi. Inseguiamo luoghi già confezionati, già interpretati, già approvati. La scoperta lascia spazio alla replica.
Il prezzo nascosto del successo
Dietro la bellezza delle foto c’è spesso un impatto invisibile. Il turismo di massa non è più solo una folla estiva nei centri storici: è una pressione costante, capillare, che cambia le città, consuma le risorse, alza i prezzi, peggiora la qualità della vita per i residenti. A Lisbona, quartieri come Alfama sono diventati teatri turistici, senza più abitanti del luogo. Venezia, per cercare di contenere l’ondata quotidiana dei turisti, ha introdotto un biglietto d’ingresso.
Viaggiare per narrare, non per vivere
Il vero nodo non è solo dove andiamo, ma perché. Sempre più spesso, il viaggio non è più qualcosa che si vive, ma qualcosa che si racconta. L’identità del viaggiatore si costruisce sull’adesione a un copione visivo condiviso, non sull’esperienza personale. Ma se viaggiamo per imitare un racconto, e non per scriverne uno nuovo, perdiamo la parte più preziosa, ovvero l’incontro con l’ignoto, l’imprevisto, l’ascolto. Viaggiare diventa un accumulo di immagini, non di significati. Più ci affanniamo a mostrare, meno davvero viviamo.
Tornare a guardare
Come scriveva Proust: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”. Forse oggi dovremmo ripartire da qui, dovremmo uscire dal “copione”, guardare un luogo non per fotografarlo, ma per capirlo, per viverlo, per emozionarci ed arricchirci. Solo così il viaggio potrà tornare ad avere un senso. Non come dimostrazione, ma come trasformazione.

