SPECIALE / Il femminicidio oltre il patriarcato
L’interpretazione prevalente del fenomeno del femminicidio fa spesso riferimento a una reazione di matrice patriarcale, in cui l’indipendenza e l’autonomia femminili vengono percepite come una minaccia all’ordine simbolico tradizionale e, in quanto tali, punite anche con l’estrema violenza. Tuttavia, è lecito interrogarsi sulla pertinenza di una tale lettura alla luce delle trasformazioni sociali, culturali ed economiche che hanno attraversato l’Occidente.
Possiamo ancora parlare di “patriarcato” in senso stretto, come struttura sistemica e verticale di potere maschile? O sarebbe forse più opportuno considerare l’ipotesi che la violenza di genere odierna sia alimentata anche da fattori meno evidenti, ma profondamente radicati nella forma mentis neoliberale, che agisce a livello individuale e collettivo?
La normalità nell’Occidente
La normalità non è universale, ma legata ai contesti storici entro cui si produce, e ha la funzione di stabilizzare la cultura di riferimento. Infatti, non bisogna considerare il femminicidio come un fenomeno astorico, senza esplorare ed individuare gli aspetti della nostra cultura che fanno da terreno per la devianza e il disagio psichico.
Secondo la psicologa Pisana Collodi, nella società occidentale attuale la cultura del legame e il riconoscimento del bisogno di appartenenza sono stati profondamente compromessi dal neoliberismo e dalla retorica del self-made man — una figura cinica, autonoma, autosufficiente e priva di affettività. In un contesto in cui manca uno spazio autentico per sperimentare i sentimenti e sentirsi riconosciuti, e dove prevalgono la demonizzazione della dipendenza, il timore dell’Altro, il consumismo sentimentale e l’anestesia emotiva, la relazione interpersonale si riduce a un ulteriore gioco di potere: un terreno su cui misurare successo e prestazione.
Assistiamo così a una preoccupante mutazione antropologica: i rapporti umani vengono inquinati dalla logica del profitto e dell’ascesa sociale, provocando un progressivo irrigidimento emotivo che contamina anche la sfera relazionale, trasformata in un campo di battaglia dove regna la legge del più forte e in cui l’Altro non è più interlocutore, ma ostacolo o strumento.
Perdita ed Accettazione
Un ulteriore nodo centrale riguarda il concetto di perdita e la capacità di elaborare il dolore e la rabbia senza compromettere la propria integrità psichica. Una crisi di presenza, infatti, può generare una ferita profonda che solo il sostegno della cultura e della comunità è in grado di lenire. Tuttavia, quando viene meno questo spazio protetto di accoglienza e la funzione “cicatrizzante” del contesto relazionale si indebolisce, il processo di disumanizzazione prosegue fino a sfociare in un furore distruttivo indiscriminato.
La dinamica della sopraffazione a cui oggi assistiamo non si configura più come espressione del modello patriarcale del “padre padrone”, bensì come esito della rabbia dell’uomo faustiano, il quale reagisce alla perdita di un autentico potere contrattuale sostituendolo con pratiche coercitive e relazioni di dominio. In tal senso, l’affermazione della volontà individuale degenera in una tendenza sistematica alla violenza, espressione estrema di un disagio psicosociale che non trova più contenimento né elaborazione nel tessuto collettivo.
Siamo sicuri sia colpa del patriarcato?
Nel dibattito sul femminicidio si riscontra spesso la tendenza a generalizzare, ricorrendo a categorie omnicomprensive come quella di “patriarcato” o di “sessismo” che, seppur significative, rischiano di oscurare elementi strutturali più profondi alla base del malessere contemporaneo.
Diviene quindi necessario sospendere le reazioni polarizzanti — comprese alcune derive di femminismi malati di matrice antagonista, che sembrano talvolta orientate più alla rivendicazione di una supremazia speculare che alla costruzione di un’autentica equità relazionale — per avviare una riflessione più complessa e meno ideologicamente caricata.
È lecito allora domandarsi: è davvero il patriarcato l’unica, o principale, chiave di lettura del fenomeno? Siamo sicuri che stiamo centrando il problema? Non dimentichiamo che l’odio non fa che generare altro odio, e senza porsi le domande giuste, si rimarrà sempre prigionieri di risposte sterili e autoreferenziali.