2 giugno: l’intervista impossibile alla Repubblica Italiana
Giornalista: Repubblica Italiana, buongiorno. Settantanove anni: come ci si sente?
Repubblica Italiana: Stanca. Ma non per l’età: per il peso. Ogni anno mi carico addosso chili di retorica: sempre lo stesso discorso. Si canta l’inno, si vola con le frecce tricolori e poi ci si dimentica che sono nata da un referendum. Non da un miracolo.
Giornalista: Ecco, cominciamo da lì. 2 giugno 1946: il giorno della tua nascita. Una festa?
Repubblica Italiana: Una scelta. Ma non una scelta da palcoscenico. Una scelta col sangue ancora fresco, con le città sventrate e le coscienze spaccate. Il Paese usciva da vent’anni di fascismo e da una guerra mondiale che aveva distrutto tutto: città, famiglie, coscienze. Eppure, il 2 giugno, più di 12 milioni di italiani dissero: “Basta monarchia”. Non perché amassero la Repubblica, ma perché volevano smettere di obbedire in ginocchio.
Giornalista: Una decisione lucida o solo reazione?
Repubblica Italiana: Entrambe. Lucida perché nonostante l’analfabetismo, la fame e i lutti, si votò. E si votò sul serio: scheda alla mano, fila ai seggi, donne comprese, per la prima volta. Un atto rivoluzionario. Migliaia di donne, reduci dalla guerra che avevano affrontato da sole, con il peso della famiglia e la fame, si presentarono ai seggi. Ex staffette partigiane, madri, operaie, contadine: il loro voto non fu solo un esercizio di diritto, ma la reale fondazione di una democrazia partecipata. Fu la loro presenza a dare pienezza al concetto di cittadinanza, un segnale inequivocabile che l’Italia nuova sarebbe stata “di tutti”.
Una reazione, certo, perché la monarchia era complice di tutto: guerre perse, leggi razziali, fuga del re. Ma quel voto fu anche costruzione. Non si trattava solo di abbattere qualcosa. Si provava a immaginare un’Italia diversa.
Giornalista: E poi?
Repubblica Italiana: Poi sono diventata legge. Carta Costituzionale, 1948. Un’opera collettiva, scritta da ex partigiani, ex monarchici, ex fascisti pentiti. Un progetto pensato per durare. Ma, come ogni progetto, ha bisogno di manutenzione quando serve.
Giornalista: Cosa è cambiato dal 1946 a oggi?
Repubblica Italiana: È cambiato quasi tutto: lo scenario internazionale, l’economia, la società. Ma una cosa resta: la mia natura di patto. La Costituzione che mi definisce non è un documento immobile: è una mappa per orientarsi. Il problema è che oggi quella mappa spesso non viene letta. Si chiede alla Repubblica di dare risposte, ma si dimentica che le risposte si costruiscono insieme, con il contributo di tutti.
Giornalista: Qual è la tua più grande preoccupazione?
Repubblica Italiana: Che la cittadinanza diventi un concetto formale. Che la partecipazione si esaurisca nel voto — quando c’è — e che i diritti vengano percepiti come concessioni, anziché come fondamento di una convivenza. Che la memoria storica si sgretoli, e con essa il significato stesso di ciò che rappresento. Io sono nata da una scelta, ma sopravvivo solo se quella scelta viene confermata ogni giorno, nei comportamenti, nelle istituzioni, nella cultura civile.
Giornalista: E oggi, in un’epoca di velocità e frammentazione, che ruolo puoi avere?
Repubblica Italiana: Posso essere ancora uno strumento di coesione, di giustizia, di orizzonte comune. Ma serve uno sforzo collettivo per andare oltre la superficie. La Repubblica non è uno slogan, né un logo istituzionale. È un’idea concreta, che si realizza attraverso l’equilibrio tra libertà individuale e bene comune. Se prevale l’indifferenza, se si smette di riconoscersi in un destino condiviso, la Repubblica si svuota di significato .Il 2 giugno è una festa, sì. Ma come tutte le vere feste civili, non serve solo a ricordare: serve a misurare la distanza tra ciò che siamo e ciò che abbiamo promesso di essere. La Repubblica non invecchia se resta fedele a sé stessa: un patto vivo, quotidiano, tra chi la abita e chi la rappresenta.