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Carceri e salute: l’esperta, curare per prevenire

Ultimamente si sente parlare di carcere in termini problematici, questo perché viene concepito come “altro” rispetto alla società civile o, peggio, come un ambiente che serve esclusivamente a tutelare chi sta fuori, dimenticando chi sta dentro. Ricollegandoci a quest’ultimo aspetto, poniamo il focus sul tema della salute nelle carceri con l’avvocatessa Francesca Sassano, esperta della materia, vicepresidente dei Centri per la Ricerca e L’Osservazione dei Sistemi di Salute, che abbiamo intervistato per Aìko. 

Un tema di cui spesso sentiamo parlare è quello della salute all’interno delle carceri. A questo proposito, dal punto di vista psico-mentale, come i condannati affrontano la pena detentiva?

Dai dati emersi nel 2024, il numero di detenuti presenti negli istituti penitenziari è pari a 61.049, di cui 19.108 di cittadinanza non italiana (31,3%). La capienza regolamentare è di 51.178 detenuti e la differenza con i presenti è di poco inferiore alle 10 mila unità: ciò determina un tasso di sovraffollamento pari a 119. Ciò è quanto emerge dai dati raccolti dal Ministero della Giustizia e dal CNEL. È evidente come il tema della salute, ambito già difficile in gestione “aperta”, assuma una criticità maggiore in un regime detentivo. L’art. 11 dell’ordinamento penitenziario, rubricato Servizio sanitario, risulta integralmente sostituito dalla versione introdotta dal Decreto Legislativo n. 123 del 2018.

La “nuova” formulazione dell’art. 11 si apre con l’affermazione per cui il servizio sanitario nazionale opera negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni nel rispetto della disciplina sul riordino della medicina penitenziaria (D.Lgs. n. 230 del 1999): il riferimento è anche (ma non solo) al principio di parità tra i livelli di prestazioni sanitarie assicurate a detenuti e internati rispetto a quelle assicurate ai soggetti liberi, il quale si trova dunque ribadito all’interno dell’ordinamento penitenziario. Durante la permanenza in istituto, sempre secondo quanto previsto dal comma 7, “l’assistenza sanitaria è prestata con periodici riscontri, effettuati con cadenza allineata ai bisogni di salute del detenuto”. In riferimento all’art. 11 le omissioni più evidenti riguardano senza dubbio il tema della malattia mentale. In realtà, non solo si può arrivare in carcere con patologie psichiatriche pregresse, non solo la patologia psichiatrica può insorgere durante l’esecuzione della pena, ma si rende altresì necessario fare i conti con i rapporti reciproci tra le anime del doppio binario sanzionatorio e, più esattamente, con il coordinamento tra il carcere e il sistema delle REMS. Le maggiori criticità, in tema di diritto alla salute, si riscontrano nella gestione delle patologie psichiatriche, ma anche e soprattutto nelle tossicodipendenze in regime di detenzione. In detenzione il diritto costituzionale alla salute assume troppo spesso una valenza prospettica; invece, proprio i SerD e le carceri sono i setting in cui l’intervento sanitario pubblico può mettere in atto un’efficace terapia farmacologica, al fine di salvaguardare la salute del soggetto con dipendenza, favorendone il recupero e il reinserimento nella società. In tema di tossicodipendenza, personalmente penso che le carceri rappresentino il primo setting di impiego dei farmaci long acting. Essi consentono una maggiore flessibilità del trattamento con un miglioramento e una personalizzazione dei percorsi di cura, offrono un maggiore sostegno al miglioramento della qualità di vita del paziente dal punto di vista relazionale, familiare e lavorativo, permettono di ridurre le conseguenze sanitarie legate a misuso e diversione (per es. overdose e infezioni) e portano a una destigmatizzazione della cura. Inoltre, per assicurare la continuità terapeutica sarebbe importante disporre di un fascicolo sanitario unico o di una cartella clinica informatizzata facilmente accessibile, in grado di superare i confini delle strutture/regioni. Sono anni che mi sto dedicando a questa finalità. 

Ultimamente i casi di suicidio nelle carceri stanno crescendo progressivamente, ma qual è la causa scatenante di questo fenomeno? Può essere un effetto della pena detentiva o un fattore legato ad un aspetto disfunzionale dell’organizzazione della struttura carceraria?

Sommando i suicidi avvenuti nel 2023 con quelli avvenuti nei primi mesi del 2024 si arriva a contare cento casi in totale. Questi sono i dati raccolti da Antigone. Gli Istituti dove sono avvenuti il maggior numero di suicidi tra il 2023 e il 2024 sono le Case Circondariali di Roma Regina Coeli, di Terni, di Torino e di Verona. In ognuno dei quattro Istituti si sono verificati 5 casi di suicidio. Sia a Terni che a Torino i casi sono stati quattro nel 2023 e uno nel 2024, mentre a Verona sono stati tre nel 2023 e due nel 2024. Sono espressione di marginalità e di disperazione, ma anche di mancato ascolto e di abbandono. Si dovrebbe investire di più sugli spazi, con gradualità per ingresso e accoglienza, ma anche per il rilascio. Non a caso vi sono stati suicidi avvenuti in prossimità del fine pena. 

Per prevenire questi episodi, potrebbero essere adottate misure come l’inserimento di figure specializzate (psicologi, psichiatri, educatori), o potrebbero essere messe in campo attività culturali, lavorative, sportive per dare un senso al tempo della detenzione?

Visto il numero crescente delle persone detenute e il tasso di affollamento che caratterizza l’attuale condizione dell’organizzazione penitenziaria, assume un rilievo particolare quello della recidiva, un fenomeno sociale di dimensioni importanti e di ricadute sociali. Sicuramente, dalla prospettiva della recidiva è possibile analizzare e valutare l’efficacia delle iniziative e delle risorse finalizzate all’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale. La quantificazione degli interventi e la possibilità di calibrarli secondo le effettive esigenze delle realtà locali e delle diverse popolazioni di detenuti permettono di innalzare il grado di efficacia e di aderenza al reale fabbisogno che trova riscontro nei diversi territori. Certamente l’ampliamento delle offerte rieducative e formative all’interno delle strutture deve essere sostenuta da personale specializzato e anche fortemente motivato. Dare un senso al tempo della detenzione significa superare il concetto di tempo sospeso che troppo spesso è quello della detenzione, ma soprattutto evitare che sia un tempo sprecato.

Alessandra Romeo

Calabrese, classe '03. Studentessa di giornalismo, relazioni pubbliche e digital media con la passione per lo sport e la cronaca nera. Amante della scrittura, dei viaggi e del cinema. Determinata e ottimista.

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